XIX.

La letteratura nell’età barocca

1. Direzioni di gusto nel Seicento e poetiche barocche

Se la linea maggiore, piú diffusa e destinata nei tempi successivi a caratterizzare maggiormente il secolo, fu nel Seicento quella disegnata dalla letteratura barocca, tuttavia, s’è già accennato nel primo paragrafo del capitolo precedente, essa non fu l’unica. Accanto alla elaborazione della letteratura che prende il nome dal Marino si trovano, infatti, nel Seicento altre linee di svolgimento del gusto e delle esigenze artistiche, alcune richiamantisi particolarmente alla condizione della letteratura rinascimentale e tardocinquecentesca, altre sfumanti le posizioni marinistiche in direzione moderata, altre ancora decisamente opposte al Marino e alla sua scuola. Tra queste ultime andrà annoverata la linea di quel classicismo, diverso per modelli e per esiti dal classicismo cinquecentesco, che è impersonata dal Chiabrera e da altri minori scrittori; nella direzione del barocco moderato si trovano trattatisti come Matteo Pellegrini e poeti come Carlo de’ Dottori, del quale si parlerà in seguito a proposito del teatro; sulla linea di una piú complessa elaborazione di offerte tardocinquecentesche troviamo, infine, Traiano Boccalini, che abbiamo avuto occasione di nominare già nel capitolo precedente a proposito del “tacitismo”.

Tacito fu, infatti, l’ispiratore piú profondo della meditazione del Boccalini sulla vita politica, ma poi anche sulla letteratura, sui modi espressivi, sulla condizione umana, sulla psicologia, sulla vita in generale. Al centro dell’attività di scrittore del Boccalini vanno pertanto collocati i suoi Commentari sopra C. Tacito, cui egli dedicò gran parte della vita senza peraltro riuscire a vederli pubblicati (lo furono, infatti, postumi soltanto nel 1677). Come anche Machiavelli, Tacito è per Boccalini un maestro contrastato, perché, se da una parte egli svela a tutti quali siano le arti maliziose e violente in grazia delle quali i tiranni fondano e mantengono il loro potere, dall’altra egli insegna davvero ai príncipi le vie per affermare l’assolutismo monarchico. Ma tra queste oscillazioni Tacito s’impone, intanto, come lo storico che ha penetrato i segreti piú intimi della mente dei potenti, colui che propone un modo di indagare nella storia ben lontano da quello che era stato di Tito Livio, l’altro grande storico romano, del I sec. a.C., che era stato il modello fondamentale e insieme la fonte inesauribile di meditazione per tutta la storiografia umanistica e rinascimentale. Con ciò l’orizzonte pessimistico delle riflessioni di Tacito sull’uomo, sulla sua istintiva violenza, che in mano al tiranno diviene strumento continuo ed eterno di oppressione, viene assimilato dallo scrittore secentesco. Il quale applica l’angolazione prospettica, che ha trovato cosí ampiamente e particolareggiatamente suggerita da Tacito, alle condizioni del mondo contemporaneo, che giudica con una profonda vena di amarezza, colpito dal fatto che i piú considerano, con estrema e vergognosa tranquillità di coscienza, l’astuzia, la perfidia, la forza, la violenza come strumenti normali del regno, per cui tutti i vizi che vengono condannati in un privato, l’ambizione, l’infedeltà, la falsità, la crudeltà, vengono invece esaltati come cose eccellenti nel principe.

Il conflitto tra morale e politica, del quale s’è sopra accennato, affiora cosí anche nel Boccalini, che condanna la ragion di stato come depravatrice degli animi e corruttrice della vita civile. Ma (e in ciò il conflitto irrisolto col quale egli leggeva e assorbiva Tacito ricompare) nello stesso tempo indaga sui vari aspetti della ragion di stato, sui procedimenti che deve seguire per attuarsi, sugli strumenti di cui dispone. E il maestro per svolgere la sua indagine è ancora una volta Tacito, il quale, d’altronde, è anche ammirato per lo stile, per la forza logica, per la chiarezza dimostrativa. Doti che, peraltro, il Boccalini possiede scarsamente: tanto che egli non riesce a coordinare la sua riflessione in un vero svolgimento, lasciandola invece fermentare in infiniti spunti, in una complessa rete di argomentazioni non preoccupate di interna coerenza, in una esplosione di osservazioni sulla realtà e di mal contenute passioni, di cui la piú violenta e traboccante è l’antispagnolismo. Ché, infatti, la Spagna, che domina l’Italia e nella quale la Chiesa ha trovato l’appoggio di una forza pratica per attuare la sua volontà oppressiva, è ferocemente odiata dal Boccalini, come l’autrice della decadenza italiana, della soffocazione di ogni buono e tranquillo vivere, della sopraffazione violenta della libertà. Quella libertà ch’egli trova nel suo secolo solo in Venezia, ultimo baluardo di un vivere civile che la Spagna ha cancellato dal regno d’Italia. E a Venezia egli, che era nato a Loreto nel 1556 e che, dopo gli studi a Padova e a Roma, aveva avuto vari uffici dal governo pontificio, si rifugiò negli ultimi due anni della sua vita, interrotta, non senza sospetto di pugnale spagnuolo, nel 1613.

A Venezia s’era recato nel 1612 coll’intento di pubblicare le due prime centurie dei Ragguagli di Parnaso (apparse appunto in quell’anno), opera singolare, nella quale, insieme ad un’esposizione dei suoi gusti letterari, delle scelte critiche degli autori della letteratura contemporanea, recente e antica, il Boccalini svolge (ovvero conferma) spesso ulteriori elementi della sua meditazione politica. Nei Ragguagli egli immagina di essere il “menante”, cioè il cronista, dei giudizi che vengono emessi dal tribunale di Apollo sugli scrittori di ogni letteratura e di ogni età. È evidente che per questa via egli pensa di poter con tutta libertà esprimere il suo parere, il suo giudizio e il suo gusto, perfino con punte bizzarre e impertinenti, e anche con modi spesso allusivi, maliziosi, concettosi, segno di quanto la dimensione culturale piú corrente del secolo possa penetrare anche in una personalità che ha gusti e anche un ordine di problemi sostanzialmente tardocinquecenteschi.

Di alcuni aspetti di questa età egli partecipa infatti per quanto concerne la discussione su Aristotele, nella quale egli propende a credere che questi non abbia inteso fornire un insieme di regole obbligatorie per lo scrittore, ma solo dei suggerimenti desunti dagli scrittori di cui egli poteva avere conoscenza; di conseguenza rifiuta di giudicare uno scrittore, ed eventualmente condannarlo, solo perché non ha, pedantescamente, seguito le regole aristoteliche. Il poeta a lui piú congeniale, anche nella libertà creativa (avendo ubbidito solo «al talento che gli aveva dato la natura ed all’ispirazione della sua serenissima Calliope»), è il Tasso, grandissimo inventore di situazioni, profondissimo scrutatore degli animi umani, acutissimo ed eloquentissimo parlatore.

Un atteggiamento intermedio tra le esigenze del Cinquecento e il prepotente affiorare del nuovo gusto barocco s’esprime nei Proginnasmi poetici di Benedetto Fioretti (pubblicati sotto lo pseudonimo di Udeno Nisiely), che si mostra fedele ad Aristotele, ma pronto ad accogliere eccezioni diverse, e dichiara che gli antichi furono piú ingegnosi ma i moderni sono piú sapienti. Un simile atteggiamento assume Nicola Villani che, difendendo, nell’Uccellatura di Vincenzo Foresi all’Occhiale del cav. Stigliani (1630), il Marino dalle accuse rivoltegli da Tommaso Stigliani, trova tuttavia modo di condannare gli eccessi del Marino stesso e dei suoi seguaci e soprattutto la loro freddezza e prolissità. E nemico delle esagerazioni marinistiche fu Matteo Pellegrini (Delle acutezze, 1639), che pure accettava la concezione sostanzialmente edonistica dell’arte che era al fondo del marinismo e che del resto era comune un po’ a tutti i teorici e gli scrittori del Seicento.

Ma il piú autorevole teorizzatore del gusto barocco può essere considerato Emanuele Tesauro, nato a Torino nel 1592, storico oltre che letterato, insegnante all’Accademia di Brera e precettore dei principi di Savoia-Carignano, morto nel 1675. Questi nel Cannocchiale aristotelico (1654) indica la profonda differenza che intercorre tra la “dimostrazione dialettica” e la “persuasione rettorica”, la prima strumento del ragionamento, la seconda mezzo e obiettivo della poesia. Ciò che manca al Tesauro è una nozione della poesia come atto conoscitivo, tanto è vero che per lui il mezzo con cui il poeta deve operare è la metafora, la quale tanto piú riesce poetica quanto piú è capace di utilizzare, e prima formare, l’acutezza, «gran madre – come egli scrive – d’ogni ingegnoso concetto; chiarissimo lume dell’oratoria e poetica elocuzione; spirito vitale delle morte pagine; piacevolissimo condimento della civil conversazione; ultimo sfarzo dell’intelletto; vestigio della divinità nell’animo umano». È evidente che il modello e il fondamento del Tesauro nelle sue osservazioni e considerazioni sull’arte è il Marino: cosí nelle pagine del critico e teorico anche lo stile del poeta maestro s’impone totalmente. Questo processo di assimilazione del marinismo diviene totale col procedere del secolo e ciò si manifesta ampiamente nel Ritratto del sonetto e della canzone (1678) di Francesco Meninni, per il quale tutta la letteratura italiana nel suo svolgimento altro non è che un processo preparatore della perfezione del Marino, in una linea continuamente ascendente fino a quest’ultimo. Ma il Meninni era un tardo riassuntore e anche esageratore di una tendenza del gusto che non tarderà ad essere rovesciata dalle insorgenze settecentesche e già tardosecentesche di una maggior misura nella letteratura e nell’arte.

2. Giambattista Marino

Oggetto di lodi altissime e di attacchi violenti durante il Seicento (e poi variamente, ma sostanzialmente considerata in una prospettiva piú cauta di poesia lontana dalla vera grandezza), l’opera poetica del Marino è certo la piú significativa espressione della tendenza barocca in Italia, cosí come la stessa personalità e vicenda biografica di questo poeta ben rappresentano un tipo di umanità e di vita “barocca” sia per le sue smisurate ambizioni e per le sue avventurose peripezie (nel tipico mondo rissoso e opportunistico delle corti secentesche e delle loro clientele di letterati famelici di protezione e prebende), sia per la debolezza morale, il gusto spettacolare, la preferenza dell’apparire sull’essere, sia anche per la sete di avventure ed esperienze culturali e letterarie che non mancano di curiosità per il nuovo mondo scientifico, ma sempre in forma piú dilettantesca che profonda, piú irrequieta che ansiosa della verità e della persuasione e dell’impegno personale.

Nato a Napoli il 14 ottobre 1569, Giovan Battista Marino visse la sua prima giovinezza in quella città, capitale del vicereame spagnolo dell’Italia meridionale, fra attività letteraria, ricerche di protezioni mecenatesche, spregiudicate avventure amorose, debiti e incarceramenti che lo costrinsero, intorno al 1600, a riparare a Roma e a Ravenna (al servizio del cardinale Pietro Aldobrandini), per poi passare a Torino, dove, dal 1608 al 1615, riuscí ad inserirsi, con successo, nella corte di Carlo Emanuele I, finché (dopo un’aspra polemica con un altro letterato, il Murtola, finita con un attentato contro di lui da parte di quello) egli non venne in sospetto al duca per la sua arroganza ed eccessiva confidenza, fu incarcerato e dové di nuovo cercare altre possibilità di protezione e di successo presso la corte francese a Parigi.

Qui il Marino rimase dal 1615 al 1623, onorato, protetto e lautamente pagato dalla reggente Maria de’ Medici e dal re Luigi XIII, nonché accolto con grandissimo favore dai letterati francesi, che lo ammirarono come maestro di una nuova scuola poetica specie per il poema Adone, pubblicato nel 1623 con la entusiastica prefazione dello Chapelain. Cosí il Marino raggiungeva una fama e un prestigio europei e, quando, nel 1623, egli rientrò in Italia (per ragioni di salute e per il timore delle guerre religiose e civili che si stavano scatenando in Francia), anche perciò fu accolto a Roma e poi nella nativa Napoli con onori altissimi come gloria poetica della nuova letteratura italiana, anche se non mancarono violenti dissensi di alcuni letterati e le censure ecclesiastiche per le parti troppo lascive dell’Adone. A Napoli il Marino morí nel marzo del 1625 con una morte religiosamente edificante e come tale molto esaltata dai contemporanei, al cui gusto religioso del resto il poeta aveva cercato di venire incontro nei suoi ultimi anni (già prima aveva scritto con assoluta indifferenza la Dicerie sacre in prosa), sia con un poemetto La strage degli innocenti, sia con le allegorie preposte ai singoli canti dell’Adone e dirette a dare una spiegazione simbolica di carattere filosofico-religioso ortodosso agli episodi sensuali di quel poema.

In realtà il Marino non ebbe una vera vita di sentimenti religiosi e di profonde persuasioni morali e ideali. E mentre questa mancanza lo allontana dalla pienezza della vera e grande poesia, sempre fondata su una forte vita di affetti e di idee, non si può d’altra parte avvicinarsi alla sua poesia se non proprio comprendendone l’essenziale origine sensuale (piú che sentimentale) e l’essenziale versatilità letteraria, la sua disposizione al gusto e all’esaltazione descrittiva e amplificatrice delle cose nella loro sensuale apparenza, nel loro fascino visivo, pittorico, musicale, nel loro riferimento ad una sensualità sempre desta e alacre a cogliere la meraviglia dei fenomeni naturali e a destarla nei lettori servendosi delle immagini piú sontuose, piú avvincenti, piú nuove, delle metafore e dei concetti piú inusitati e inaspettati. Perciò la sua poetica, il suo bando di nuovo scrittore ben si consolida nei suoi noti versi secondo cui «è del poeta il fin la meraviglia / (parlo dell’eccellente, non del goffo) / chi non sa far stupir, vada alla striglia». Dove sarà da insistere anche sul valore della parentesi che precisa l’esigenza di una meraviglia propria del poeta “eccellente” e non “goffo”: e cioè di una meraviglia elegante e raffinata, frutto di naturale sensibilità e immaginosità, ma anche di studio, di calcolo, di utilizzazione di quanto la precedente tradizione poetica può offrire sempre nella direzione del meraviglioso e dello squisito.

Sicché il poeta barocco ideale, con cui il Marino si identifica, vorrà, da una parte, superare e rompere la tradizione e i modi invecchiati e risaputi della poesia precedente, ma insieme dovrà ricavare dalla tradizione italiana classica (con chiare preferenze per poeti concettosi e ricchi di immaginosità rara e preziosa, come Ovidio o i poeti della decadenza latina o certo Petrarca piú arduo e lambiccato o, piú vicino, il Tasso nelle sue offerte prebarocche) situazioni, immagini, frasi, cadenze ritmiche con cui arricchire il proprio nuovo discorso poetico originale, ma anche preziosamente intessuto di echi letterari rifusi in esso.

Tale procedimento di novità ardimentosa, persino spavalda, e di letterarietà estrema (che alla fine convergono in una volontà molto chiaramente barocca di vincere la svogliatezza del pubblico piú con la singolarità e l’artificio che con pensieri e sentimenti profondi e semplici) si può riscontrare anche nelle stesse lettere del Marino, interessanti a renderci, sempre in un tessuto letterario, la figura dell’uomo e dello scrittore con i suoi umori polemici, con le sue ambizioni, e d’altra parte con una riserva di arguzia e di burlesca comicità, che va pur calcolata nella sua stessa poesia e che spesso rompe felicemente il peso di un’abilità troppo costante e compiaciuta.

Ma tanto meglio gli indirizzi dell’arte mariniana si verificano nelle sue opere poetiche: la Lira (in tre parti: due pubblicate nel 1608, una terza nel 1614) che significativamente inquadra sonetti, canzoni e madrigali sotto la comune insegna di una poesia amorosa da contrapporre alla poesia epica e bellicosa (in cui lo stesso Marino aveva tentato un poemetto, a lungo rimasto inedito, l’Anversa liberata) in una direzione di pieno abbandono alla sensualità che può esaltare insieme vere e proprie situazioni amorose (il caso esemplare della canzone riportata nell’antologia O baci aventurosi, in cui morbide cadenze musicali e immagini voluttuose concorrono a creare un equilibrio e continuo sviluppo di sensazioni piú che di sentimenti) o scene di una natura ugualmente prediletta per le sensazioni fervide e molli che essa offre alla sensibilità del poeta. Né vi mancano vere e proprie poesie burlesche accanto a poesie che si volgono al macabro o all’illustrazione singolare e ingegnosa di aspetti abnormi o minuscoli della realtà (nani, cani, giuochi di dadi o di pallone), confermando, cosí, come sulla base della sensualità e dell’ingegnosità il Marino possa svolgere una vasta tematica di situazioni, di oggetti con cui colpire e aggredire l’attenzione e gli interessi di una società e di un pubblico piú volto alla meraviglia e alla prestigiosa abilità che ad un’arte profonda e composta.

Anche l’altra raccolta, la Galleria (del 1620), che descrive pitture e sculture, crea veri e propri ritratti – in una specie di gara con le arti figurative del tempo –, attinge soprattutto la sua felicità alla capacità mariniana di descrizione sensoriale di oggetti e persone, mentre negli “idilli favolosi” della Sampogna (pubblicata pure nel 1620) il Marino raggiunge uno dei punti piú interessanti della sua poesia nella congeniale descrizione di un mondo mitico-pastorale impreziosito da una morbida vena erotica e risolto in una capacità musicale-melodica davvero affascinante.

Ma l’opera in cui il Marino volle raccogliere tutta la somma imponente delle sue esperienze letterarie e volle tentare la gara e il superamento delle grandi opere poetiche del Cinquecento (Orlando Furioso e Gerusalemme liberata) è il poema già ricordato, l’Adone.

L’Adone, in venti canti lunghissimi in ottave (in tutto si tratta di quarantacinquemila versi), narra le vicende del mitico, bellissimo pastore di nobile stirpe, che si innamora, ricambiato, di Venere, e gode del suo amore nella beata isola di Cipro, dove, nel giardino del Piacere, passa insieme all’amata attraverso le gioie procurate dai sensi (vista, odorato, udito, gusto, tatto) e quelle dell’intelligenza e visita, con lei, il cielo della luna, regno dei mali e dei sogni, il cielo di Mercurio, regno dell’arte, il cielo di Venere, regno della bellezza.

A questo punto, percorsi tutti i gradi del piacere, il racconto passa dall’idillio voluttuoso e felice alla preparazione romanzesca e avventurosa della catastrofe che prima si complica e si amplia smisuratamente con la descrizione della realtà esteriore del mondo, da quella cosmica a quella della terra con tutte le scienze e le arti dell’uomo e la stessa vita della corte, poi si addentra in una serie di intricate vicende. Adone, perseguitato da Marte amante di Venere, è costretto a fuggire da Cipro e a ripararsi presso la maga Falsirena che, amandolo non riamata, lo tramuta in pappagallo. Salvato poi da Mercurio e ripreso il suo aspetto umano, ritorna a Cipro e viene nominato da Venere re di Cipro. Senonché Marte aizza contro di lui un cinghiale che lo ferisce e lo uccide provocando la disperazione di Venere, la quale onorerà la sua morte con l’istituzione di giuochi funebri descritti lungamente nella fine del poema con l’inserimento in essi di un sontuoso avvenimento principesco contemporaneo: le nozze di Luigi XIII, re di Francia, e di Anna, principessa d’Austria.

La trama è complicata, ma, rispetto all’enorme lunghezza del poema, risulta in realtà esile e debole, e ben lontana sia dalla incessante creatività narrativa dell’Ariosto sia dall’organicità piú solenne e scandita del Tasso. E come il Marino nel suo poema manca di una forte e necessaria struttura (perché mancava di una forte e sicura fantasia e di un’idea centrale possente), cosí l’unità e le ragioni vere dell’Adone andranno piuttosto cercate – secondo la sua “poetica”, la sua ispirazione, il gusto stesso suo e del suo tempo – in un bisogno di digressioni, di episodi, di descrizioni, collegati fra loro, piú che dalla stessa trama, da un gusto di varietà e di versatilità appoggiata al motivo ispirativo del godimento sensuale e ingegnoso della realtà nelle sue apparenze labili e meravigliose, singolari e piacevoli anche quando toccano gli elementi del magico, dell’abnorme, del mostruoso. Non ingannino le allegorie già ricordate, premesse poi ai canti per superare le censure ecclesiastiche e per venire incontro alle esigenze religiose e moralistiche del tempo della controriforma e secondo le quali la stessa morte dell’affascinante Adone dovrebbe dimostrare che «smoderato piacer termina in doglia». In realtà il Marino interpretava l’animo del suo tempo nella propria tendenza a esaltare, con inesauribile ricchezza e varietà immaginosa e “mirabile”, il godimento erotico, il piacere dei sensi, la meraviglia della realtà della vita naturale e associata, screziandola e variandola in infiniti episodi e paesaggi molli e voluttuosi, in miti idillici affascinanti, e soprattutto in descrizioni (la descrizione è in certo senso la fondamentale forma poetica del barocco italiano) condotte avanti con un virtuosismo a volte esasperante, ma a volte indubbiamente alimentato da una eccezionale sensibilità e sorretto da una abilità letteraria raffinatissima. In questi casi piú felici e tutt’altro che infrequenti si può misurare il singolare incanto della poesia mariniana, la sua capacità di attrarci tuttora (al di là delle lodi entusiastiche e delle stroncature radicali e senza perciò dimenticare che mai il Marino giunge alla vera e grande poesia) in un mondo favoloso e fragile, effimero, ma pur affascinante di parvenze sontuose e raffinate, di effetti pittorici e musicali che fondono in sé movimenti patetici e idillici, elementi di grazia e di melodia: e si pensi almeno (riferendosi ai brani riportati nella nostra antologia) all’elogio della rosa e, ancor meglio, alla gara fra il musico e l’usignolo, dove si esalta al massimo grado quell’abilità e capacità inventiva di immagini e suoni cui il Marino intendeva affidare le qualità piú tipiche della sua nuova poesia.

Né si dimentichi il fatto che con questo tipo di poesia il Marino ben poteva pretendere al ruolo di poeta del suo tempo, bisognoso di novità e di meraviglia, e soprattutto del suo pubblico cortigiano e aristocratico, della classe dirigente secentesca, dei suoi gusti fastosi e complicati fra solennità, convenzioni moralistiche e volontà di un prestigio appoggiato anche all’ausilio di una letteratura preziosa e meravigliosa, adatta a confortare una vita e un costume di società privilegiata e avida di piaceri squisiti ed eccezionali.

3. La lirica barocca

Il Marino fu considerato un caposcuola, il maestro della lirica barocca italiana, che fu perciò tradizionalmente compresa sotto il nome generale di lirica marinistica.

Certo il Marino consolidò le aspirazioni del suo tempo in esempi fortemente suggestivi per la sontuosità e la morbidezza delle sue immagini arricchite e dilatate con l’uso coerente dei mezzi stilistici a ciò piú confacenti: la metafora, l’iperbole, il “concetto” ingegnoso e “mirabile” specie nelle chiuse dei componimenti o delle loro parti, dove doveva risaltare l’effetto piú inaspettato e stupefacente, la liquidità e la scorrevolezza della melodia sensuale e languida.

E certo gli stessi suoi avversari (come Tommaso Stigliani, autore del poema Il Mondo nuovo), anche quando volevano combatterlo alla luce di una maggiore fedeltà alla tradizione, non mancavano di mostrare nei loro componimenti aspetti di acutezza arguta e che pur riportano sempre alla centrale lezione del Marino. Tuttavia un panorama della lirica barocca piú articolato e distintivo, quale qui non è dato disegnare, non potrebbe non indicare l’insufficienza della semplice formula del “marinismo” e mostrerebbe in quante sottili e diverse ramificazioni si disponga effettivamente lo sviluppo della lirica barocca durante il corso del secolo.

Basti almeno qui ricordare, nella enorme folla di rimatori del Seicento barocco (attivi in tutta Italia, ma particolarmente numerosi nel Sud, dove il barocco mostra una sua presenza come piú congeniale a certe caratteristiche regionali di sfarzo immaginativo e concettistico, con una significativa minore fioritura in quella Toscana che rimaneva sostanzialmente piú fedele al gusto rinascimentale piú ordinato e sobrio), alcune personalità poetiche che variamente rappresentano direzioni poetiche diverse pur sulla comune base del generale gusto barocco.

Cosí, mentre Claudio Achillini, di Bologna (1574-1640), può essere presentato come un piú fedele scolaro del Marino e un applicatore pesante e puntiglioso della tecnica della metafora rara e sorprendente fino alla bizzarria e alla stravaganza (non a caso il Manzoni citerà ironicamente l’inizio del suo famoso sonetto per Luigi XIII: «Sudate, o fuochi, a preparar metalli»), il suo conterraneo Girolamo Preti mantiene nelle sue rime qualcosa di piú antiquato e tassesco nei suoi componimenti, e altri lirici come Giovanni Sempronio (1603-1646) risolvono la lezione del Marino in forme medie, meno accese e piú facili, su di una via di tensione metaforica piú moderata e commisurata ad una affettuosità piú sincera e umana, che trova il suo rappresentante piú interessante e vivo nel napoletano Girolamo Fontanella (1612-1644), le cui poesie (come i due sonetti riportati nella nostra antologia) si raccomandano per una singolare capacità di esprimere un mondo sentimentale sincero, piú commosso e domestico, o pacatamente sognante in una nostalgia di miti classici a conforto di immagini e situazioni della comune realtà quotidiana.

Né mancano lirici che mostrano nelle forme ardite e barocche una maggiore presenza di aspirazioni morali e religiose che dà a quelle un tono piú serio e controllato, una risonanza piú profonda: sarà il caso del romano Virginio Cesarini (1595-1624) o, meglio, il caso notevolissimo del friulano Ciro di Pers (1599-1663), la cui lirica severa e pensosa si apre a temi politici e patriottici seriamente sentiti, alla commossa meditazione sulla sorte drammatica dell’Italia desolata dalla peste, dalle guerre fra i potenti stranieri, o si concentra in una riflessiva e dolorosa descrizione della «miseria e vanità umana», della caducità dell’uomo rappresentata piú volte nell’immagine ossessiva e penetrante dell’orologio che scandisce l’inesorabile scorrere del tempo dell’uomo verso la morte e la fine di tutte le sue ambizioni e tentazioni mondane.

Inoltre dovrà ricordarsi che, nello sviluppo del secolo, la lirica barocca, dopo tanta congerie di tentativi poetici animati dall’incontro di sensualità e di ingegnosità chiamate a sostenere un mondo effimero e appariscente di parvenze fastose e singolari, ad esaltare gli aspetti di un morboso erotismo e di una realtà fenomenica brillante e insolita (come a colmare un sostanziale vuoto morale e ideale), si volge, e soprattutto in zona meridionale, ad una specie di ultima fiammata immaginosa e metaforica, come in un supremo sforzo di resistenza estremistica al proprio intimo declino.

Sarà il caso vistoso (ma sostanzialmente mediocre) del siciliano Giuseppe Artale (1628-1679), la cui stessa vicenda biografica di infaticabile duellatore, di guerriero avventuroso e sanguinario, ben si può ricordare come esempio di un costume piú temerario che coraggioso, piú arrogante e altero che veramente e degnamente virile, piú attento al “punto d’onore” che alla vera dignità, pronto com’è a farsi cortigianesco e servile con i potenti e con l’ordine feudale e assolutistico del tempo. E cosí la sua poesia, riprendendo i temi e i procedimenti piú tipici della lirica barocca italiana precedente, li esalta fino al paradosso piú insostenibile e falso: come avviene, ad esempio, in un sonetto che descrive, con minuta dilatazione di ogni particolare, la pulce che macchia il seno di una bella donna (né mancò nella lirica barocca chi cantò le immagini piú deformate della bellezza femminile – bella nana, bella gobba – o quelle piú ripugnanti di insetti popolanti la capigliatura di una signora!), o come avviene nel famosissimo sonetto su Maria Maddalena (la santa peccatrice, oggetto di molte variazioni della poesia e dell’arte barocca per l’offerta di scambi ibridi fra sensualità e misticismo), in cui la donna che lava i piedi del Cristo con le sue lacrime e li asciuga poi con i suoi capelli sciolti è rappresentata, nella chiusa sorprendente, attraverso l’estremistico impiego di un’antitesi metaforica:

Se il crine è un Tago e son due Soli i lumi,

non vide mai maggior prodigio il cielo:

bagnar co’ Soli e rasciugar co’ fiumi.

Ma sarà anche il caso, ben diversamente consistente, del gesuita napoletano Giacomo Lubrano (1619-1693), che porta ad un grado di incandescenza il gusto barocco delle ripetizioni, antitesi, metafore, specie in descrizioni di paesaggi contorti e lussureggianti (come quello degli orti reggitani e dei loro fantastici cedri), o squallidi e lividi (come in un sonetto sull’arsura estiva), non senza una specie di intimo rovello e assillo morale e religioso che tenta di esprimersi proprio nel tormento paradossale del giuoco stilistico e nell’estrema esaltazione immaginosa.

Estremo e fallito, se pure interessante, tentativo, ché ormai, verso la fine del secolo, altre vie si aprivano nella lirica a chi voleva riportare in poesia piú severi contenuti morali e religiosi o cercava un accordo piú intimo fra parole e cose, superando l’impaccio espressivo in cui si dibatteva ancora qualche rimatore, preso fra la vecchia tradizione barocca e l’urgere in lui di sentimenti e pensieri piú vigorosi (come accadeva soprattutto al notevolissimo Bartolomeo Dotti, di Brescia, 1649-1713, che sia nelle sue liriche sia nelle sue satire tenta di esprimere, con linguaggio in parte ancora barocco, sentimenti schietti e movimenti di protesta contro il mondo contemporaneo, l’ipocrisia ecclesiastica, gli abusi e le prepotenze della nobiltà).

4. La lirica classicistica

Del resto accanto allo sviluppo della lirica barocca vera e propria andrà calcolata la presenza di una lirica che, pur condividendo l’ansia di novità del barocco (dirà il Chiabrera: «trovar nuovo mondo o perire!») e certa sua generale esigenza di grandiosità e magnificenza, piú si ricollega alla tradizione cinquecentesca e all’esempio dei classici latini e greci, e specie di Orazio e di Pindaro per la loro vibrata sentenziosità e il loro diverso tono stoico ed eroico.

Tale linea si appoggia soprattutto a due poeti di diversa generazione: il Chiabrera e il Testi. Gabriello Chiabrera (nato a Savona nel 1552 e morto in patria nel 1638, ma vissuto in varie città, da Roma a Mantova, a Torino, a Firenze) ha già nella sua vicenda biografica elementi che lo distinguono da uomini del barocco come il Marino: ché il Chiabrera fu pur letterato e uomo di corte, ma in un rapporto di piú sicura dignità con i suoi mecenati, meno avventuriero e meno avido di fastosa affermazione, piú legato all’idea di una letteratura encomiastica, ma desideroso di farsi diretto collaboratore di civiltà e insieme strumento di personale conforto e di dominio delle passioni. In questa direzione piú ambiziosa e alta il Chiabrera (che invano tentò la costruzione di pesanti e macchinosi poemi epici, come La gotiade, Firenze, l’Amedeide) compose le sue Canzoni appoggiate all’esempio di Pindaro e di Orazio e tese alla ricerca di una magniloquenza educativa ed esortatoria, non priva di sentimenti sinceri e storici, sollecitati dalla consapevolezza della decadenza italiana e dall’aspirazione ad educare nuove generazioni piú virili ed eroiche (come avviene nella canzone sul giuoco del pallone, dove l’esercizio sportivo è pindaricamente assunto come forma di educazione al valore morale ed eroico), ma certamente piú letterariamente e tecnicamente decorose e abili che poeticamente valide. Elaboratore di metri ripresi da quelli classici latini e greci, il Chiabrera fu soprattutto un letterato esperto e consapevole e come tale fu importante sostenitore di una specie di modernità e novità ottenuta per mezzo della ripresa della gloriosa tradizione classica in opposizione ai modi piú avventurosi e antitradizionalistici della lirica barocca. Ma piú, con minor pericolo di stento e fatica (quale derivava dalla sua stessa difficile operazione di innesto fra modi antichi e sentimenti moderni), il Chiabrera risulta nell’altra direzione della sua poesia, anch’essa appoggiata ad un ideale modello antico: Anacreonte, mediato e come già piú modernizzato attraverso la ripresa che ne avevano fatto nel Cinquecento i poeti francesi della Pléiade, conosciuti e amati dal nostro scrittore. Quest’altra direzione è volta a cantare in rapide e agili strofette (fatte di metri brevi e di giuochi musicali di rime e assonanze) belle immagini femminili, colte nel loro fascino piú labile e squisito (si pensi alla canzonetta Riso di bella donna), rapide vicende e situazioni erotiche, affascinanti e aggraziati spettacoli naturali.

Ne deriva una poesia fragile, e a volte un po’ meccanica e saltellante, ma certo, nei suoi esiti migliori, dotata di una grazia sottile, di una tenue luminosità, di un dolce gorgheggio di suoni, assai diversa dalla sensualità piú piena e opulenta, dai modi concettosi e capziosi, della lirica barocca e corrispondente ad una piú schietta capacità del Chiabrera di aderire con una piú lieta meraviglia a momenti intatti e affascinanti della vitalità, della natura, della bellezza.

Nel suo insieme l’opera del Chiabrera può apparire piú antiquata e piú vicina ai suoi presupposti cinquecenteschi, mentre la linea di classicismo “moderno” da lui inaugurata trova una funzione ancor piú chiara di distinzione consapevole (anche se non interamente effettiva) dal barocco, ormai piú fortemente affermato e sviluppato, nella lirica di Fulvio Testi.

Questi, nato a Ferrara nel 1593, visse soprattutto a Modena, alla corte estense, come funzionario e diplomatico, e, come tale, fece vasta e amara esperienza degli intrighi e maneggi in cui, in gran parte, si svolgeva l’attività politica degli stati italiani fra il predominio spagnolo e gli interventi francesi e il giuoco piú duttile e ambizioso del ducato di Savoia. Né mancarono a lui forti delusioni personali (nel difficile impegno di un’affermazione di se stesso e della sua funzione diplomatica), sicché sulla sua stessa morte, avvenuta nel 1646, incarcerato dal duca di Modena, sospettoso dei suoi segreti rapporti con la Francia, gravò il dubbio (peraltro assai improbabile) di un decesso non naturale.

Sicché nelle sue poesie (a parte qualche concessione a temi amorosi, dove piú possono cogliersi le vicinanze con la lirica barocca) prevalgono motivi morali e civili, derivanti dalla sua stessa esperienza reale della vita contemporanea che egli esalta e celebra nei suoi aspetti almeno velleitariamente eroici, nei tentativi dei Savoia di svincolare l’Italia dalla sua sudditanza al dominio spagnolo, che egli attacca nei suoi costumi avviliti e degenerati, nei vizi di invidia e ingiustizia delle corti, nella passività degli italiani rispetto alla gloriosa attività dell’antica epoca romana. Da qui nascono il suo gusto per la descrizione storica, il sentimento elegiaco e nostalgico per le rovine e i vestigi grandiosi della perduta potenza italiana. Con ciò non si può davvero dire che il Testi riesca vero poeta, ché domina nella sua poesia una solennità monotona e rigida, troppo ricalcata sui modelli antichi imitati, anche se il suo linguaggio non ha lo stento piú percepibile nelle canzoni eroiche del Chiabrera e il suo discorso poetico si svolge corretto e agile entro i limiti della monotonia sopra rilevata. Dei limiti e dell’interesse di tale poesia può essere del resto bastevole esempio la celebre canzone al Ronchi, riportata nell’antologia, che poté colpire, non a caso, il Leopardi della giovanile canzone all’Italia, e lo indusse a riprenderne immagini austere e pietose, come quella dell’Italia che piange, divenuta serva da regina qual era nei tempi romani.

Immagini e toni che comunque, ripeto, si distaccano assai fortemente da quelli consueti alla lirica barocca, come il classicismo testiano si diversifica dalle posizioni di modernità ad ogni costo di quella lirica.

5. Il poema eroico ed eroicomico

Fra le aspirazioni piú ambiziose e irrealizzabili (data la scarsa forza di pensiero e di sentimento e la tendenza irresistibile alle digressioni e allo sviluppo eccessivo dei particolari descrittivi e spettacolari) dell’epoca barocca è da sottolineare quella della ripresa del poema eroico, che si appoggia spesso sul grande modello della Gerusalemme liberata e accomuna in prospettive assai simili sia personalità piú ostili al nuovo modello dell’Adone (già ricordammo lo Stigliani che affidò la sua fama ad un poema, Il mondo nuovo, inteso a glorificare l’impresa di Cristoforo Colombo; e qui potremmo ricordare il genovese Antonio Cebà con il suo lungo e complicato poema La reina Ester, piú interessante per un particolare intreccio di motivi politici e di analisi psicologica dei personaggi), sia personalità chiaramente passate attraverso l’esperienza concettistica barocca, ma volte a recuperare nel poema epico una grandiosità piú strutturata e organica. Come è soprattutto il caso di Girolamo Graziani (marchigiano, 1604-1675) che nel suo poema, Il conquisto di Granata, tentò, non senza qualche risonanza poetica piú energica e patetica, di associare fra di loro una vicenda guerresca e religiosa (la guerra fra spagnoli cristiani e arabi maomettani culminata nella conquista della città di Granata da parte di Ferdinando il cattolico) con episodi romanzeschi e amorosi, rispondendo cosí al gusto di un pubblico avido di avvenimenti grandiosi e di una stretta e ambigua fusione fra sensualità erotica, devozione controriformistica, altera profilazione di personaggi complicati da un orgoglioso desiderio di gloria e soprattutto di fama e di una morbida e sin morbosa sensibilità.

Ma se la tendenza al poema eroico è da ascrivere alle aspirazioni piú velleitarie del secolo, piú fruttuosa letterariamente e piú significativa per altri aspetti di un’epoca piú complicata che profondamente complessa è la diffusa tendenza al poema eroicomico che mescolando elementi epici e comici spezza la rigidità solenne del poema eroico (ed eroico-religioso) e ne costituisce una specie di parodia che permette libero sfogo al fondo di bizzarria, di irrisione, di divertimento, vivo nell’animo secentesco sotto la veste piú sontuosa delle velleitarie aspirazioni grandiose.

Tanto che questa tendenza finisce per costituire uno dei “generi” piú caratteristici del Seicento, una delle sue creazioni piú particolari e nuove, anche se naturalmente non manca di riferimenti ai precedenti della tradizione, rappresentati da poemi come il Morgante del Pulci.

Numerosissimi sono i poemi eroicomici sin dall’inizio del secolo: dallo Scherno degli Dei di Francesco Bracciolini – che è del 1618 e ridicolizza non solo gli Dei della mitologia e le loro avventure, discordie, reciproche beffe, ma anche il falso eroismo e il linguaggio iperbolico del tempo – fino a quelli piú tardi di G.B. Lalli (la Moscheide) o dei letterati e artisti toscani come Lorenzo Lippi (il Malmantile racquistato) o come Bartolomeo Corsini (il Torracchione desolato) o come Federico Nomi (Il catorcio d’Anghiari) in cui sempre piú prevale un gusto giocoso, beffardo, grottesco che pone in ridicolo argomenti falsamente epici (per lo piú piccole guerre paesane fra guerrieri contadini, gaglioffi e paurosi) e ne trae spunto per novellette burlesche, bizzarre, e soprattutto per un dotto e scherzoso giuoco letterario linguistico, per effetti comici di modi di dire e “riboboli” del gergo contadinesco e villereccio toscano adatti a rendere (e a volte si tratta, come nel Lippi, di letterati-pittori, attenti al colore e alla macchietta) la varietà e la deformazione burlesca della realtà piú quotidiana.

Al centro e al culmine di questa linea letteraria si dovrà porre, per importanza e impegno critico e rappresentativo, il piú famoso poema eroicomico del Seicento: la Secchia rapita di Alessandro Tassoni.

Questi, nato a Modena nel 1565 e ivi morto nel 1635, accompagnò la sua attività letteraria con una notevole carriera di diplomatico e di segretario di potenti (fu fra l’altro per qualche anno in Spagna al seguito del cardinale Ascanio Colonna e, piú a lungo, a Roma, al servizio del cardinale Maurizio di Savoia e del cardinale Ludovisi, e ancora a Torino, segretario di Carlo Emanuele I) e cosí poté confortare con una vasta e diretta esperienza la sua passione politica, incerta e astratta nel suo desiderio di mantenere l’ordine degli antichi stati italiani e la superiorità e i privilegi dell’aristocrazia, fondandoli su di una strategia nazionale antispagnola (con riferimento chiaro alla politica di Carlo Emanuele di Savoia), ma sincera e capace di tradursi in forza di eloquenza pungente e a volte commossa, come avviene soprattutto nelle due Filippiche (diffuse nel 1614-1615 anonime, ma ormai certamente a lui attribuibili) contro l’esoso dominio spagnolo in Italia, privo di prospettive che non fossero quelle di uno sfruttamento economico vorace e interamente indifferente alla sorte delle popolazioni oppresse.

Lo spirito polemico del Tassoni si applica anche al campo della letteratura combattendo con ardire e vivacità, spinti fino al paradosso (ma spesso piú vistosi che profondi e minati da un certo fondo di pedanteria), sia il vecchio petrarchismo, sia il classicismo, sia le regole e concezioni estetiche aristoteliche alla luce della sua idea di una superiorità dei moderni sugli antichi, che si riconnette, nella sua particolare configurazione meno accesamente barocca, alla volontà innovatrice e rivoluzionaria (con tutti i limiti di velleità già piú volte sottolineati) del Seicento: posizioni aggressive e irrequiete che possono cogliersi sia nella raccolta Pensieri diversi (miscellanea disordinata di pensieri su problemi letterari e su problemi politici, morali, scientifici), sia nelle Considerazioni sopra le rime del Petrarca, in cui il Tassoni assale piú che il grande poeta trecentesco i suoi seguaci e imitatori pedissequi (le “zucche secche” su cui tanto ironizza e riversa i suoi bizzarri paradossi), sia ancora negli arguti libelli con i quali egli difese il suo antipetrarchismo come soprattutto nella Tenda rossa.

Ma il capolavoro del suo spirito polemico e comico-grottesco è costituito appunto da quel poema, La secchia rapita (scritto dal 1614 al 1618 e pubblicato nel 1622), che in dodici canti narrava, mescolandole insieme, l’antica guerra municipale fra i guelfi bolognesi e i ghibellini di Modena, quando a Fossalta (nel 1249) fu fatto prigioniero dai primi Enzo, re di Sardegna e figlio di Federico II di Svevia, e quella precedente, fra le due città, quando i modenesi vinsero i loro avversari e riportarono come trofeo la secchia di legno di un pozzo bolognese, gelosamente conservata nella torre Mirandolina. Questa piccola contesa locale determina una vasta rete di alleanze di guelfi e di ghibellini contrapposti, rete che voleva adombrare (nelle intenzioni del poeta) la situazione italiana ed europea scossa da grandi contese politiche e militari particolareggiate ironicamente nella guerra accanita (nel 1613) per la conquista di alcuni borghi e colline di castagni fra la repubblica di Lucca e il ducato di Modena.

Chiaro è, dunque, l’intento parodistico circa la vanità di grandi contese per miseri oggetti (nel presente la terricciuola sterile contesa fra Lucca e Modena con lo scatenarsi di reazioni a catena fra gli stati italiani ed europei: nel passato la misera secchia di legno) e chiara la volontà letteraria del Tassoni di ricavare dalla meschina e ingarbugliata vicenda quella mescolanza di “grave” e di “burlesco” che egli esplicitamente dichiarava di voler ottenere nel suo poema.

Per ottenere ciò il Tassoni riversò nel poema tutto il suo spirito polemico e paradossale, l’antipatia per gli spagnoli, per la Chiesa, per i suoi tempi avviliti e antieroici, per i suoi concittadini modenesi, per i suoi piú diretti avversari, come quell’Alessandro Brusantini modenese che egli raffigura sotto le vesti del conte di Culagna, prototipo dello spaccone, vile e goffo, la cui comica vicenda spicca nel poema per notevole vigoria di caricatura e di parodia, specie quando il conte di Culagna, innamorato della vergine-guerriera Renoppia (cui dedica serenate in goffo stile barocco-petrarchista e in linguaggio toscaneggiante), sfida a duello Titta (amante della moglie, che il conte vorrebbe tradire ed eliminare, e rappresentante di un’umanità plebea odiata dall’aristocratico Tassoni) e sviene per la paura di essere stato ferito, per poi finir vittima comica di un potente purgante con cui egli pensava di avvelenare la moglie.

A tutte queste povere e comiche vicende si mescolano personaggi storici ed eroici, che pure il Tassoni vagheggia con una certa nostalgia aristocratica e cavalleresca in contrasto con il presente vile e volgare, si mescolano (in questa bizzarra contaminazione di tempi e di mondi diversi) perfino gli stessi Dei della mitologia, nella cui rappresentazione degradata e deformante (Diana fa il bucato come una lavandaia popolana, Giunone sta a lavarsi i capelli, le Parche fanno il pane e Sileno è intento ad annacquare il vino ai servitori come un maggiordomo del tempo) il poeta volle parodiare gli antichi poemi classici, dimostrarne l’assurdità, ricavarne pretesti polemici (Giove e gli dei minori a concilio sono atteggiati come il papa e i cardinali di un moderno concistoro), e insieme trarne comicità di scene e situazioni briose e vivaci capovolgendo – con effetti a volte assai notevoli – i toni alti e solenni in toni realistici e burleschi e in freschi quadretti di vita quotidiana dipinti alla brava, con pennellate rapide, frettolose, ma dense.

E il suo linguaggio (nutrito di ricordi della poesia quattro-cinquecentesca dal Burchiello al Berni) asseconda, nelle zone migliori e nelle caricature e vignette piú sciolte ed efficaci (ché molta parte del poema è prolissa e noiosa), l’intento vario e complicato del Tassoni, mescolando parole eleganti e solenni con significati assai meno nobili e con parole plebee e realistiche adibite a concetti falsamente grandiosi, e servendosi abilmente, nel giro dell’ottava, di un rapido cambiamento di tono, che sulla chiusa di due versi finali fa scattare il burlesco e il comico.

Né mancano nel poema del Tassoni passi di poesia amorosa e sensuale (come l’idillio degli amori di Endimione e della Luna) che si inseriscono nella varietà dei toni della Secchia rapita e che tuttavia non possono certo spostare il centro di interesse di quella (la felicità di caricatura e di bozzetto comico-realistico) e vincere i limiti di disorganicità, di prolissità e, a volte, di pedanteria che contraddistinguono la poesia tassoniana nel suo livello di poesia minore e frammentaria.

6. Poesia giocosa e satirica

Gli elementi comici e satirici presenti nel poema del Tassoni si espandono in maniera piú diretta in veri e propri “generi” di poesia giocosa e di poesia satirica che si precisano nel Seicento come controfaccia degli aspetti piú grandiosi e persino macabri di un secolo che si compiaceva insieme di toni sontuosi e a volte tetri (con al fondo il sapore amaro della morte e della caducità sotto le apparenze piú sontuosamente vitali ed esuberanti) e di toni burleschi fra un riso aperto e baldanzoso e un piú acre divertimento aggressivo e critico nei confronti nel costume del tempo e dei vizi umani in quello piú evidenti e da quello piú condizionati.

Si tratta di linee e “generi” in genere piú interessanti come documento letterario di un’epoca che non come prodotti poetici. Sí che basterà avervi accennato, ricordandone i rappresentanti piú notevoli. Per la poesia satirica saranno Lodovico Adimari, Antonio Abati, il vivacissimo e acuto Pier Salvetti (fiorentino, 1609-1652), il serio e sobrio Jacopo Soldani e soprattutto Salvator Rosa, nato a Napoli nel 1615 e vissuto fra Roma e Firenze fino al 1673, noto come pittore di battaglie e di paesaggi, ma certo assai vivo anche in ambito letterario per le sue Satire aggressive e spregiudicate, rivolte a colpire l’ipocrisia (uno dei vizi eterni dell’uomo, ma tanto piú accentuati in epoche di servitú e di conformismo come fu il Seicento italiano sotto l’oppressione degli Spagnoli, della Chiesa controriformistica, della nobiltà feudale e assai spesso “donrodrighesca”), il bigottismo, il falso punto di onore cavalleresco, la iattanza militaresca, l’adulazione dei letterati intesi a «imbalsamar il fango e gli stivali», la pittura e la poesia contemporanea false e rovinate dalle convenzioni e dal metaforismo strampalato («le metafore il sole han consumato») e insensibili di fronte alla sorte della nazione decaduta e misera sotto l’orpello delle vuote frasi («nazione di gran fumo e poco arrosto»), o di fronte a gesta disperate ed eroiche come la rivolta di Masaniello che, povero e inerme, aveva saputo, seppure per poco tempo, opporsi ai potenti e, sollevando violentemente gli oppressi affamati e laceri, aveva potuto imporre giustizia e leggi piú umane.

Per la poesia giocosa saranno alcuni bizzarri e complicati barocchi che cercano (come il Leporeo e il Melosio) un burlesco fatto di giuochi di doppio senso, di mescolanze bizzarre di parole italiane e latine o di metri difficili e pieni di bisticci accentuati dall’uso raro di rime e “quantità” di origine classica. O saranno alcuni toscani (la Toscana è certo il centro piú vivo di tali tendenze e vedremo poi come essa a fine secolo sapesse stringere varie istanze non barocche o di barocco moderato in direzione del nuovo gusto arcadico-settecentesco) che, come già il ricordato Redi con il suo Ditirambo, si abbandonano ad un divertimento linguistico e letterario, che spesso assapora e insieme ironizza la parlata contadinesca toscana (sulla vecchia via del Magnifico della Nencia) e la situazione di un idillio rusticano, di cui sono documenti piú notevoli il Lamento di Cecco da Varlungo di Francesco Baldovini o le commedie prolisse e linguaiole (in cui sulla rappresentazione di un mondo vario e popolare predomina il gusto della ricerca di parole e modi di dire popolari) di Michelangelo Buonarroti il giovane: la Tancia (favola comica rusticale) e la Fiera (che in cinque commedie di cinque atti ciascuna descrive i tipi, i discorsi, i litigi, gli incidenti di un mercato).

7. Poesia e prosa dialettale e il Basile

Attraverso questo tipo di letteratura toscana, costruita con l’uso del gergo fiorentino cittadino e contadinesco, possiamo avvicinarci a quel settore della letteratura secentesca che cerca di tradurre piú coerentemente elementi e toni comici e satirici nel dialetto, considerato a ciò particolarmente adatto per la sua radice di popolarità e per la sua schiettezza realistica, anche se – sia ben chiaro – sempre si tratta di scrittori tutt’altro che incolti, e anzi esperti e spesso attivi anche in lingua italiana, ma ricorrenti alla lingua dialettale come ad un mezzo linguistico piú libero e meno convenzionale, piú ricco di risorse realistiche, e dunque per una scelta assai importante, come avverrà poi nel caso di grandi poeti dialettali come, nel primo Ottocento, il Porta e il Belli. E che tale letteratura dialettale abbia la sua prima maggiore diffusione nel Seicento prova come in alcune zone di quel secolo, per altri versi cosí ambiguo e falso, fermentassero germi di vera novità, legati ad una vitalità assai fertile, specie al livello della vita popolare, vibrante di propria forza immaginosa e realistica sotto la scorza della letteratura ufficiale e cortigiana.

Né certo la difesa del dialetto locale e della sua dignità letteraria è priva di significato nella vita del Seicento: piú livellata anche linguisticamente nelle sue zone piú ufficiali e auliche, piú policentrica e varia nella realtà cittadina e popolare.

Notevoli in tal senso sono (a parte autori che, come il milanese Maggi, saranno da noi ricordati nell’epoca di passaggio dall’ultimo Seicento al Settecento, vero preludio allo stesso Settecento e dunque esaminabili piú giustamente nella sezione settecentesca del nostro manuale) scrittori in dialetto bolognese, come Giulio Cesare Croce con le sue opere in prosa Le sottilissime astuzie di Bertoldo e Le piacevoli e ridicole semplicità di Bertoldino (1608), giocosa narrazione beffarda e burlesca della nota storia dell’arguto e saggio villano (e della sua moglie Marcolfa e del suo figlio Bertoldino), o scrittori in dialetto romanesco, come Giuseppe Berneri col suo poema eroicomico Meo Patacca (1695), esaltazione del popolano smargiasso e prepotente, ma intimamente buono, che va, con molti suoi seguaci, a guerreggiare contro i turchi e celebra la vittoria con feste spettacolose e brutali.

Ma piú compatta appare la letteratura dialettale napoletana, che si avvale delle risorse di un’autentica e ricca vita popolare cittadina e di un dialetto particolarmente immaginoso e realistico, esuberante e teatrale.

A Napoli cosí furono attivi numerosi scrittori efficaci, come l’anonimo autore di un componimento parodistico sotto il nome di Fidenzio Sgruttendio, Giulio Cesare Cortese con i suoi gustosi e umoristici poemetti (la Vaiasseida, che narra le vicende, i costumi, gli amori, i problemi delle donne di servizio napoletane, il Micco Passaro, rappresentazione di un bravaccio napoletano, il Viaggio di Parnaso, pieno di racconti e fiabe popolari), Pompeo Sarnelli, autore della Posilecheata, raccolta di cinque fiabe inquadrate nel racconto di una gita a Posillipo.

Tra essi spicca, come personalità artistica ben diversamente potente, Giambattista Basile, il maggiore scrittore della letteratura dialettale del Seicento e, in generale, uno dei maggiori scrittori del secolo.

Il Basile, nato a Napoli, di famiglia borghese, nel 1565, ebbe una vita complessa di letterato, uomo di corte (protetto dal duca di Mantova) e avventuriero, giungendo al titolo di conte e ad alte cariche di governo. Anche nella sua vita piú specifica di letterato la sua carriera si svolge sotto i segni della moda del tempo: seguace e ammiratore del Marino in liriche e idilli (e d’altra parte dotto commentatore delle rime cinquecentesche del Bembo, del Caro e di Galeazzo di Tarsia), il Basile svolse un’attività poetica assai vasta in cui l’uso dell’italiano e quello del dialetto napoletano vengono esercitati contemporaneamente in un rapporto di scambio, il cui risultato migliore si ha nelle opere dialettali. Queste (le Muse napoletane e il Pentamerone) si avvalgono, infatti, dell’esperienza e perizia letteraria e tecnica acquisita nell’attività in italiano e il dialetto si afferma in esse come strumento di alta letteratura, non tanto popolare quanto popolareggiante, e cioè una letteratura che attinge alle risorse del mondo e della lingua popolare, ma senza ingenuità e rozzezza, bensí anzi con il controllo di una mano di artista colto e sicuro.

Cosí il Basile meglio che nelle Muse napoletane (nove egloghe satiriche e realistiche che variamente vogliono esaltare valori poetici e gentili di fronte al mondo comune e volgare) raggiunge la sua poesia piú alta nel Pentamerone (o Cunto de li cunti ovvero lo trattenimento de’ peccerille), opera mista di poesia e di prosa: le poesie (quattro egloghe, una nell’intervallo fra ogni “giornata”) tendono, con forza piú cupa e pessimistica, a smascherare i vizi e gli inganni della vita sociale e a sostenere il valore della virtú e del saggio uso della fortuna. La prosa si divide fra una trama fiabesca generale e cinquanta favole in essa inserite e che riprendono i loro argomenti dal mondo folcloristico e popolare, sottolineandone l’incantevole ingenuità e la grazia poetica, e ricavandone toni che svariano fra la malinconia, la gentilezza, l’umanità e patetismo degli stessi esseri magici (come le fate), la stravaganza e persino un’allucinata e irreale deformazione grottesca di oggetti e fatti comuni.

Ne nasce un mondo estremamente ricco ed estroso, umoristico e vario di tinte e di suoni, dominato dalla superiore intelligenza e umanità dello scrittore che gode, con piena simpatia, di quelle vicende fanciullesche e popolari, cosí fresche, autentiche, schiette, e ne illumina, con la sua arte consumata ed espertissima, i vari aspetti, ne verifica la fondamentale umanità, ne esalta il fascino fiabesco e meraviglioso con un linguaggio arguto e denso, sfaccettato in mille immagini e metafore che lo decorano e lo rappresentano insieme con alta efficacia.

Sicché dal Pentamerone emergono insieme quel mondo popolaresco fresco e meraviglioso, con tutti i suoi sogni e la sua realtà umana, con il trapasso continuo fra realtà quotidiana e magico incanto, e l’animo dell’artista con la sua tensione morale, il suo sdegno per l’ingiustizia, il suo amore per i miseri e per la loro vita confortata da sogni e fantasticherie, la sua forte tendenza di saggezza pessimistica e il suo compenso superiore nella scoperta del meraviglioso e del magico celato nelle favolette e nei loro personaggi (Cenerentola, o il gatto con gli stivali o il gatto mammone, il topo, il grillo, la formica) ripresi dalla fresca tradizione popolare.